DOMENICANI

Provincia Romana di S. Caterina da Siena

Roma, ATAC, lupi e pastori urbani

Nel periodo delle vacanze ci capita di fare cose che usualmente non si ha il tempo e l'occasione di fare. Alcune di esse, poi, sono inusuali e al tempo stesso foriere di intuizioni e provocazioni.

In uno di questi miei giorni di “riposo” ho deciso di fare una passeggiata per Roma, facendomi accompagnare dalla mia compagnia di viaggi preferita: l'Atac. Ovviamente non si tratta della famosa “Associazione teologica amici Cristo” (dotta citazione dal film Acqua e sapone di Carlo Verdone), quanto piuttosto dell'azienda che si occupa del trasporto pubblico nella capitale. Insomma, mi sono fatto una passeggiata romana su di un autobus: non male, vero?

Ho scelto di prendere una linea che partisse dal centro della città e arrivasse fino alla periferia di Roma. Desideroso di scoprire meglio la città sono quindi andato un po' alla bersagliera, senza sapere con esattezza dove l'autista del mezzo mi avrebbe portato.

Durante la lunga traversata (due ore in tutto) ho visto e scoperto una parte della mia città che ancora non conoscevo. Tuttavia, come scritto all'inizio, la “gita” è stata foriera di provocazioni e intuizioni. Mi spiego meglio.

Roma è una città molto grande, decisamente più grande di altre famose capitali europee come Parigi (area di Roma: 1287,36 km2 ; area di Parigi: 105,40 km2), e proprio per questo al suo interno si possono trovare quartieri completamente differenti tra di loro. Purtroppo però le diversità di cui parlo non sono soltanto architettoniche o urbanistiche. Dallo stesso finestrino ho visto bellezze come il Vittoriano e, al tempo stesso, forme di povertà e di degrado che non mi sarei aspettato.

È stato proprio l'accorgersi di queste grandi differenze che mi ha toccato il cuore e fatto pensare. Sono stato come schiaffeggiato dalla realtà: uno schiaffo, tuttavia, che ritengo salutare. Accorgersi delle grandi ed inique differenze presenti nella città in cui si vive (e in cui si è nati) da un lato copre il cuore con un velo di tristezza, dall'altro invece risveglia il desiderio di giustizia. E la giustizia, come ci insegna la Scrittura, viene richiesta anche dall'Altissimo ai suoi figli (si legga, ad esempio, tutto il libro del Deuteronomio).

fabrizio cambi2   fr. Fabrizio Cambi, O.P.Giustizia significa, come insegna anche Tommaso d'Aquino, “rendere a ciascuno il suo” (Summa theologiae, II-II, q. 58, a. 11). In altre parole, domandare giustizia per una persona significa pretendere che ad essa venga restituito ciò che gli appartiene. Ed è proprio passando per certe vie della città che nella mia testa è risuonata una frase che diceva: “Queste persone meritano giustizia”. Una giustizia fatta per esempio di strade più pulite, scuole meglio fornite, case più sicure e più belle, etc.

Fare questo, si badi bene, non è un atto di carità, ma un atto di giustizia. Esso “non consiste in altro che nel rendere a ciascuno il suo” (ibid.). Fare giustizia significa restituire al cittadino quanto gli spetta, quanto cioè è conforme alla sua dignità di persona e, ancor di più, di figlio di Dio. Una dignità, questa, che deriva dall'esser stati creati ad immagine e somiglianza del Creatore, come anche dalla condizione di figli “guadagnata” con il battesimo.

Quello di fare giustizia è anzitutto un dovere di coloro che sono posti al servizio della comunità civile, vale a dire politici, giudici, avvocati, magistrati, forze di polizia e molti altri. In questa categoria di persone credo però che rientrino, in un certo modo, anche i ministri di Dio: se è infatti vero che essi sono chiamati ad essere al servizio di Dio e della sua Chiesa, è altrettanto vero che nella stessa “chiamata al servizio” sarà incluso il lavorare perché la giustizia e la misericordia (cose, queste, proprie di Dio) siano presenti nelle relazioni umane come anche nei contesti sociali e politici.

Per fare questo, tuttavia, il primo passo da fare è quello di vedere con i propri occhi le situazioni inique presenti nella città dove Dio ha voluto metterci, e prendere un autobus è solo uno dei tanti modi per comprendere il luogo dove viviamo la nostra vocazione.

Forse è però prima di tutto necessario sentire quella stessa compassione che Cristo ha avuto nei riguardi degli uomini di cui ci parla il Vangelo di Matteo: “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9, 36). Una compassione che passa anche per la difesa di quella dignità che il Creatore ha donato ad ogni sua creatura, primi fra tutte l'uomo e la donna. Perché noi non siamo chiamati ad essere mercenari che vedendo “venire il lupo” abbandonano le pecore e fuggono, ma pastori del gregge che ad immagine del Buon Pastore danno “la propria vita per le pecore” (Gv 10, 11) e le difendono dai lupi e dai pericoli.

fr. Fabrizio P.M. Cambi, O.P.

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