DOMENICANI

Provincia Romana di S. Caterina da Siena

Frammenti di vita religiosa del Beato Angelico a Santa Maria sopra Minerva

Poco conosciamo della vita di Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro. Non siamo sicuri nemmeno dell’anno della sua nascita, avvenuta intorno alla metà dell’ultimo decennio del ‘300.

Sono le sue opere che ci danno indirettamente un’immagine, un’idea della sua santa vita. La sua arte ci introduce, infatti, ai misteri della Storia della Salvezza con l’ineffabile ieraticità della carne trasfigurata dalla grazia, come espressivamente osservava il Vasari, opponendo la pittura santa del Beato Angelico all’uso di un eros non proprio santo, in molte opere “ecclesiastiche”.  Già pochi anni dopo la sua morte, avvenuta a Roma il 18 febbraio 1455, nel convento Santa Maria sopra Minerva, un confratello lo definiva Angelicus pictor, felice epiteto che gli ottenne di essere chiamato, come facciamo ancora oggi, Beato Angelico o Fra’ Angelico. La fama di santità del nostro confratello subito dopo la sua morte è suggerita anche dal fatto straordinario che la sepoltura del Beato Angelico sia stata onorata da una pietra tombale, privilegio, questo, normalmente riservato al Maestro dell’Ordine, e ovviamente, ai frati elevati all’episcopato o al cardinalato, sebbene secondo il diritto antico, questi non facessero più parte dell’Ordine, essendone usciti per assumptionem. Questo privilegio riservato ad un semplice frate indica la considerazione, se non proprio la venerazione, di cui l’Angelico godeva: tot tabula, quot miracula, come si diceva. 

Partiamo allora dalla sua beatificazione, che in realtà formalmente non c’è mai stata, e consideriamo come si è arrivati a celebrare il culto in suo onore. Nella tradizione della Chiesa Latina, ci sono diversi casi in cui nasce un culto locale per un sanctus vel beatus nuncupatus, con il conseguente sviluppo di alcune forme liturgiche, come la Messa in onore del beato, l’ufficio divino, o delle processioni, o di cappelle od altari a lui dedicati. Con la riforma promulgata nel ‘600 da Papa Urbano VIII, vennero fissate delle norme per il culto dei santi: i beati che in un dato luogo erano venerati da tempo immemorabile (più di cento anni), potevano continuare ad essere onorati con un culto, ma se si fosse voluto estenderlo ad altri luoghi, ad esempio per un beato di un ordine religioso, a tutto l’ordine, era necessaria la conferma del culto, che verificava “l’immemorabilità” del culto locale.

La via ordinaria di beatificazione, invece, che considera il martirio o le virtù del servo di Dio, prevedeva che non ci fosse alcun culto pubblico, alcuna forma di venerazione. Nel caso del Beato Angelico, la via ordinaria di beatificazione fu intentata per la prima volta per iniziativa dell’Ordine dei Predicatori nel 1904, ma non diede nessun risultato, per la scarsità delle informazioni sul nostro confratello pittore. Purtroppo, le lacune negli archivi di quegli anni sono tali, da non permettere di impostare una positio abbastanza solida per un processo di beatificazione.

Un altro tentativo di procedere alla beatificazione di Fra’ Giovanni, ci fu in seguito alla solenne celebrazione alla Minerva di Papa Pio XII, il 5 maggio 1940, per onorare Santa Caterina da Siena e San Francesco d’Assisi, da lui proclamati patroni d’Italia l’anno precedente. In quell’occasione il Romano Pontefice, che per motivi pastorali aveva intrapreso una serie di proclamazioni di patroni, chiese che si riaprisse la causa di beatificazione del Beato Angelico, per poi nominarlo patrono degli artisti. Il Maestro dell’Ordine Gillet fece redigere una nuova positio, tentando il cursus exceptus del “culto immemorabile”, ma non si trovò nulla, se una processione tenuta nell’800 al convento San Domenico di Fiesole, non sufficiente però per essere considerata culto immemorabile, tanto più che datava di molti secoli dopo la morte del nostro confratello. In quell’occasione, la Congregazione dei Riti diede parere negativo, e si ritirò la richiesta di un processo di beatificazione formale.

È solo con San Giovanni Paolo II che arriviamo alla concessione del culto per il Beato Angelico. In seguito ad una celebrazione solenne presieduta dal Santo Padre nella basilica della Minerva, questi chiese che venisse riaperta la causa di beatificazione di fra’ Giovanni, per poterlo proclamare patrono degli artisti. Riaperta la causa, questa volta fu la Congregazione per le cause dei santi a dare un parere negativo sulla possibilità di procedere alla beatificazione di Fra’ Angelico. Il prefetto della stessa Congregazione suggerì allora al Papa di concedere il culto locale della Messa e dell’ufficio divino citra tamen approbationem cultus, cioè senza la conferma del culto, senza la beatificazione formale, dando la possibilità all’Ordine dei Predicatori di richiedere l’estensione del culto a tutto l’Ordine.

San Giovanni Paolo II concesse il culto locale del Beato Angelico il 3 ottobre 1982 con il motu proprio “Qui res Christi gerit” e il 18 febbraio 1984, in occasione del pontificale nella basilica Santa Maria sopra Minerva proclamò il Beato Angelico patrono degli artisti. Da allora, per l’Ordine Domenicano e per gli artisti è possibile celebrare la Messa e l’ufficio in onore del Beato Angelico. 

Passiamo adesso al tentativo di rappresentarci, anche solo in maniera frammentaria, la sua vita religiosa, estrapolando le informazioni che possiamo ottenere dalla storia della vita domenicana, concentrandoci in particolare sui suoi soggiorni romani, al convento Santa Maria sopra Minerva. Sappiamo che Fra’ Giovanni venne a Roma in due occasioni. La prima, probabilmente nella seconda metà del 1445, fu convocato da Papa Eugenio IV. L’Angelico risiedette nel convento Santa Maria sopra Minerva dal 1446 al 1449, realizzando diverse opere pittoriche. Venne a Roma una seconda volta, chiamato da Nicolò V, nel 1452 o 1453, e vi restò fino alla sua morte, avvenuta nel 1455. In questo ultimo soggiorno realizzò la decorazione della cappella niccolina che si può ancora ammirare nei palazzi apostolici del Vaticano. 

Come era il complesso della Minerva alla metà del ‘400? Cosa deve aver visto e come può aver vissuto in quel convento?

I frati di San Domenico si istallarono nel Campo Marzio intorno al 1275, ai margini di quello che era l’abitato di Roma all’epoca, che si concentrava intorno all’attuale via del Corso. Probabilmente, i frati distrussero gran parte degli edifici che vi trovarono, per costruire il convento, un chiostro e una chiesa abbastanza grande da accogliere le masse di persone, pellegrini e abitanti locali, che affollavano i luoghi di predicazione. Le predicazioni pubbliche, nelle piazze o nelle chiese, infatti, erano praticamente gli unici eventi ai quali si poteva partecipare, mancando a quell’epoca teatri, stadi o altri luoghi pubblici di intrattenimento. riccardo lufrani2   fr. Riccardo Lufrani, O.P.Le predicazioni popolari erano molto seguite anche perché spesso i predicatori usavano gli exempla, cioè delle storielle edificanti, che a volte erano anche curiose e divertenti, tanto da costituire un vero e proprio genere letterario, che probabilmente contribuì alla nascita di raccolte di novelle come quelle del Boccaccio.

Per accogliere in un luogo protetto dalle intemperie le folle di gente che accorrevano ad ascoltare le predicazioni dei frati mendicanti, c’era quindi bisogno di un grande spazio coperto. Molto probabilmente la prima forma della chiesa della Minerva era simile a quella che possiamo vedere a Santa Croce a Firenze, con la differenza di avere tre navate. Non c’erano cappelle laterali e la copertura era a semplici capriate: una specie di quelle che in Francia si chiamavano le églises-granges, cioè le chiese fienili. Solo nel ‘400 cominciarono ad apparire le cappelle laterali della navata destra, non solo per favorire la pietà ed il culto, ma anche per assicurare al grande complesso conventuale le congrue e sicure entrate finanziarie dei lasciti associati alle cappelle.

Del convento non ne sappiamo quasi nulla, se non che fosse molto vasto, probabilmente esteso fino all’odierna via del Seminario e a Sant’Ignazio - che all’epoca non esisteva ancora -, e organizzato intorno a vari chiostri ed un orto. Il chiostro principale, adiacente alla chiesa, doveva essere simile a quello che possiamo ammirare ancora oggi a Santa Sabina o al Laterano. Intorno alla metà ‘400, questo chiostro fu trasformato per iniziativa del cardinale domenicano Juan de Torquemada, grande benefattore della Minerva, e venne decorato con dipinti di scene bibliche che illustravano le Meditationes scritte dal cardinale castigliano. Lo stesso cardinale, insieme alla famiglia Colonna, contribuì finanziariamente al completamento della copertura della chiesa che proprio alla metà del ‘400 venne realizzata, sostituendo le capriate, con le volte che sono oggi visibili (seppur con le modificazioni apportatevi alla metà dell’800).

Come era la vita nel complesso conventuale della Minerva all’epoca del Beato Angelico?

Il convento all’epoca ospitava diverse comunità, probabilmente separate tra loro, con i rispettivi spazi comuni, come il refettorio. Forse fin già dalla fine del ‘300 il Maestro dell’Ordine si era stabilito alla Minerva, scelta perché più vicina all’abitato dell’urbe rispetto a Santa Sabina. Fino all’ora, il Maestro poteva risiedere in vari conventi, a seconda delle esigenze dell’Ordine, ma, così come successe nello stesso periodo alla curia papale, anche la curia dei frati predicatori dovette trovare un luogo dove poter custodire gli archivi che, con lo sviluppo dell’amministrazione, diventavano sempre più voluminosi, e quindi difficilmente trasportabili. Alla metà del ‘400, oltre alla curia generalizia, alla Minerva risiedeva probabilmente anche la curia Provinciale Romana e un convento di frati; in tutto, circa un centinaio di frati viveva nel complesso minervitano, così esteso che si suonava la campana per il coro un quarto d’ora prima dell’orario, per permettere ai frati più lontani di avere il tempo di recarsi alla preghiera comune nella chiesa.

Che tipo di vita religiosa svolgevano i frati in quel tempo?

Già all’epoca di san Tommaso d’Aquino i frati erano distinti in circa una metà di chierici, a loro volta suddivisi in “formali” e “materiali”, e una metà di frati conversi (oggi chiamati cooperatori), non chierici, che si occupavano del funzionamento del complesso sistema abitativo, del vitto, della produzione dell’orto, della manutenzione, delle pulizie, ecc. I frati chierici “formali”, scelti tra quelli più dotati intellettualmente, studiavano ed insegnavano, e per questa loro attività erano dispensati dal coro insieme ai predicatori generali, tranne che per la preghiera di compieta. Questa dispensa si fondava sull’argomentazione che lo studio teologico, occupandosi eminentemente di Dio, aveva come fine lo stesso fine dell’ufficio divino, ed essendo il fine che specifica, l’assimilazione dello studio e la preghiera era chiara. Questo spiega anche perché i sindaci di grandi conventi come Saint-Jacques a Parigi non avessero la dispensa dal coro, nonostante il loro gravoso impegno.

Anche San Tommaso godette di questa dispensa. Lo sappiamo perché, in una sua lettera di risposta al Maestro dell’Ordine, scrisse di aver ricevuto la missiva mentre in coro si cantava l’ufficio del Giovedì Santo. I frati chierici “materiali”, non dediti allo studio, erano invece tenuti al coro, che, per impegnarli, oltre a tutte le ore dell’ufficio comune, era arricchito dall’ufficio dei defunti e dall’ufficio della Beata Vergine Maria, per non contare le numerose processioni. Un’altra caratteristica della vita religiosa era quella che si chiamava “vita privata”, che garantiva una grande indipendenza nella gestione delle entrate e delle uscite finanziarie. Il frate che faceva professione di “vita privata” poteva disporre delle sue entrate per comprare i costosi manoscritti da studiare, per viaggiare e svolgere altre attività legate allo studio e al suo ufficio. I frati che entravano professando la vita comune, erano invece dipendenti in tutto dal convento.

Un esempio della fine del ‘200 di questa indipendenza finanziaria di alcuni frati ce lo offre ancora una volta San Tommaso, che, come racconta il suo biografo Guglielmo da Tocco, con il cospicuo stipendio che riceveva da Carlo d’Angiò per il suo insegnamento all’università di Napoli, nel 1272, per la festa di Sant’Agnese, offrì alla comunità del suo convento una doppia pietanza! La vita privata fu abolita formalmente solo all’inizio del XX secolo dal Maestro dell’Ordine Frühwirth, dando però facoltà ai frati che avevano professato in religione in questa forma di vita, di continuare come prima.

Come visse il Beato Angelico la sua vita religiosa a Roma?

Intanto, è interessante ricordare che per lui fu importante essere chierico. Normalmente un frate consacrato ad un’arte “meccanica” come la pittura avrebbe dovuto essere un frate converso ed infatti, quando si presentò al convento Santa Maria Novella a Firenze per entrare nell’Ordine dei Predicatori, gli fu detto che sarebbe potuto entrare solo come non chierico. L’Angelico si rivolse allora a fra’ Giovanni Dominici, al convento di Fiesole, in quel tempo centro della riforma osservante, e fu accolto nell’Ordine come chierico. Possiamo ritenere che alla metà del ‘400, nel convento della Minerva la configurazione della vita religiosa fosse simile a come abbiamo tratteggiato sopra, e che il Beato Angelico fruisse dell’indipendenza necessaria allo svolgimento della sua attività pittorica.

Era certamente accompagnato dalla sua bottega, cioè da un certo numero di persone, non solo frati, ma anche laici, da retribuire, alloggiare, nutrire, per non contare la gestione dei materiali necessari alla realizzazione delle pitture. Anche le contrattazioni per le commissioni erano svolte personalmente dal Beato Angelico, e riguardo alla dispensa del coro, sebbene non abbiamo documenti, possiamo immaginare che fra’ Giovanni potesse godere delle stesse prerogative dei frati “formali”.

Sebbene non abbiamo notizie certe sulla vita di Fra’ Angelico, da quanto è emerso nella breve e frammentaria analisi della vita religiosa alla Minerva nella sua epoca, possiamo immaginare il frate pittore svolgere la sua attività con l’indipendenza necessaria, restando allo stesso tempo intimamente unito alla vita del suo convento, meditando e celebrando i Santi Misteri, che altrimenti non avrebbe potuto comunicare così mirabilmente nella sua sublime arte. Nell’omelia in occasione della solenne celebrazione del 18 febbraio 1982, San Giovanni Paolo II disse: “Guardare al Beato Angelico è guardare a un modello di vita in cui l’arte si rivela come un cammino che può portare alla perfezione cristiana: egli fu un religioso esemplare e un grande artista.” Così come la grandezza dell’arte del Beato Angelico, come affermano molti, sta nel manifestare una profonda comunione spirituale con le realtà celesti, la sua esemplarità nella vita religiosa del suo tempo, se contestualizzata correttamente, ci aiuta ad evitare ogni perniciosa idealizzazione ed ideologizzazione della vita consacrata, nel passato, nel presente e nel futuro, per seguirne genuinamente l’esempio, forti della sua intercessione.

fr. Riccardo Lufrani, O.P.
Convento Santa Maria sopra Minerva, Roma

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