DOMENICANI

Provincia Romana di S. Caterina da Siena

Il bene di vivere ed il diritto di non soffrire: il testamento biologico

Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (GU 16.1.2018)
Conferenza 20 marzo 2019

Introduzione

Quando ho detto a un mio confratello, eminente teologo tomista, che avrei parlato a questo stimato ed autorevole consesso delle questioni legate al fine vita, per sdrammatizzare sia l’augusta atmosfera in cui mi sarei ritrovato sia la tremenda questione della morte, mi ha consigliato di esordire dicendo: “abbiate un po’ di pazienza! Prima o poi ci arriveremo tutti!”.

 Mi sono permesso di fare questa battuta per evidenziare l’aspetto che più di ogni altro ci accomuna tutti, qualunque sia la nostra visione del mondo, e cioè il nostro destino comune: l’ineluttabilità della morte! Almeno fino a quando le tecnoscienze non riusciranno a rinchiuderci dentro quella prigione escatologica che sarebbe il prolungamento all’infinito della vita terrena.

Questo per adesso comune destino è forse la causa principale della convergenza di vedute, e spesso anche di terminologia “teologica”, che ha caratterizzato molte dichiarazioni di voto nell’iter di approvazione della legge 219 del 22 dicembre 2017. Ci ritorneremo. Nel mio modesto contributo, tenterò di presentare la posizione della Chiesa Cattolica riguardo alla questione del fine vita e di evidenziare quello che a mio avviso sia una tendenza molto positiva che caratterizza la nostra epoca: il ritorno al realismo filosofico, maturato durante la lunga parentesi idealista, che, grazie a Dio, sta esaurendo il suo maldestro tentativo di interpretare la realtà storica. 

La vita

Molti malintesi e incomprensioni derivano da concezioni diverse di una stessa realtà e per poter avere un dialogo veramente costruttivo è necessario comprendere la visione dell’interlocutore. Cosa intende la Chiesa Cattolica quando parla di vita? L’enciclopedia di bioetica e scienza giuridica ricorda che il concetto di vita “non può essere ristretto alla pura vitalità, alla continuità dei processi biochimici, ma abbraccia la totalità dell’esistenza fisico-psichico-spirituale dell’uomo e considera l’uomo nel rapporto con se stesso, con gli altri, con Dio, con il mondo. Il concetto di vita, quindi, “abbraccia non solo la vita fisica, ma la vita in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi tempi, anche quello che si prolunga oltre la vicenda terrena””.1 Per la Chiesa Cattolica la dignità assoluta della vita umana, “riconoscibile con la ragione da parte di tutti gli uomini, viene elevata ad un ulteriore orizzonte di vita, che è quella proprio di Dio, in quanto divenendo uno di noi, il Figlio fa sì che gli uomini possano diventare “figli di Dio” (Gv 1, 12), “partecipi della natura divina” (2 Pt 1, 4).2 In altre parole, il fine, il senso stesso della vita umana è la divinizzazione dell’uomo attraverso la grazia della comunione con la stessa natura divina di Dio. Come sostiene Sant’Agostino, Dio ci ha creati capax Dei,3 cioè predisposti nella nostra natura alla comunicazione per grazia della natura divina, o, in termini filosofici, preordinati ad entrare in una sintesi religiosa con un Assoluto-che-salva, come afferma il filosofo Tommaso Demaria; sta a noi scegliere con quale Assoluto-che-salva entrare in sintesi, se con Dio, o con un altro Assoluto. A seconda dell’Assoluto-che-salva che consapevolmente o inconsapevolmente scegliamo, ne riceviamo la forma, divina, nel caso che scegliamo Dio, non divina, negli altri casi.4 

Inoltre, per guidarci in questa “operazione” di sintesi religiosa, Dio ci ha fornito anche del desiderio di divinità, che si declina nel desiderio di eternità, di onnipotenza, di onniscienza, di beatitudine, cioè di felicità perfetta.5 Questa ultima affermazione, ci illumina sul tentativo più o meno esplicito di soddisfare, attraverso le tecnoscienze, questo desiderio di divinità iscritto, potremmo dire, nel DNA dell’uomo; sono i famosi tre Super dei Transumanisti: super-longevità, super-intelligenza e super-benessere. Se facciamo il percorso inverso, e cioè partiamo dai tre Super appena citati, possiamo costatare come proprio i Transumanisti ci stiano indicando quali sono i desideri profondi dell’essere umano, avvalorando involontariamente quanto la dottrina della Chiesa afferma da sempre. In questo contesto di divinizzazione naturalmente desiderata dall’essere umano, la tentazione di sostituirsi a Dio scompare in quanto tale, poiché, per chi non è cristiano, l’unico modo per cercare di soddisfare il desiderio di divinità, di realizzare la capacità di Dio di cui parlava Sant’Agostino, va necessariamente ricercato nell’uomo stesso, e cioè nello sviluppo delle tecnoscienze. La dignità dell’essere umano, durante tutta la sua vita, terrena e celeste, è supremamente considerata dalla Chiesa Cattolica, e non è quindi sorprendente che si interessi con particolare attenzione alle questioni che riguardano il fine vita, dove la dignità della persona umana, è particolarmente esposta e fragile.

Il fine vita: consenso informato, terapia del dolore, disposizioni anticipate di trattamento, obiezione di coscienza 

Pubblicata dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari nel 2016, la Nuova Carta degli Operatori Sanitari, sebbene non esaustiva rispetto a tutte le questioni che riguardano la cura, offre delle chiare linee guida per affrontare i problemi etici correlati alla cura della vita umana, in armonia con gli insegnamenti della Chiesa.6 Il numero 144 enuncia il principio portante delle indicazioni che seguono e che riguardano il fine vita: “Servire la vita significa per l’operatore sanitario rispettarla ed assisterla fino al compimento naturale. L’uomo non è padrone ed arbitro della vita, ma fedele custode; la vita è un dono di Dio, e quindi, è inviolabile e indisponibile.” È interessante notare come molte delle indicazioni etiche contenute in questa parte della Nuova Carta corrispondano alle questioni che la legge 219 cerca di regolare. 

Permettetemi di presentarvi alcune di queste indicazioni. Partiamo dalle cure palliative: il n°. 147 afferma che “al malato in fase terminale della sua malattia vanno somministrate tutte le cure, che gli consentano di alleviare la penosità del processo del morire”, formulazione che corrisponde a quanto espresso nella legge 219 all’art. 2.1. Il n°. 153, pur contemplando la libertà del paziente di non volere ricevere terapie analgesiche, afferma che “questo non costituisce una norma generale”, e quasi lo sconsiglia, ricordando che “molte volte … il dolore può diminuire la forza fisica e morale della persona”, basandosi sul discorso pronunciato nel 1957 da Papa Pio XII all’Assemblea Internazionali di medici e chirurghi, per poi specificare che è necessario il consenso del malato a ricevere le cure del dolore.

Il n°. 154 considera gli effetti collaterali e le complicazioni che l’uso di farmaci analgesici a dosaggi elevati provocano, potendo anticipare di fatto la morte del paziente, e afferma che vanno “prescritti in modo prudente e lege artis”, per poi citare il CCC § 2279, che recita: “L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile”7. Per fugare ogni dubbio morale riguardo all’anticipazione della morte dovuto all’uso di questi farmaci, il n°. 154 continua citando la Dichiarazione sull’eutanasia, della Congregazione della Dottrina della Fede del 1980: nel caso di uso di farmaci analgesici in forte dosaggio, “la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone”.8

Particolare attenzione è richiesta, afferma il n°. 155, nel caso di ricorso alla sedazione palliativa profonda, che implica la soppressione della coscienza, caso esplicitamente previsto anche nella legge 219 all’Art. 2.2-3. Secondo la Nuova Carta, la sedazione palliativa profonda, previo consenso del malato e l’opportuna informazione ai famigliari, deve escludere ogni intenzionalità eutanasica e dopo che il malato abbia potuto soddisfare i suoi doveri morali, famigliari e religiosi. L’Art. 2.2. della 219, se richiede il consenso del malato alla sedazione profonda, non menziona però l’opportuna informazione alle persone vicine al malato, trascurando le implicazioni relazionali dell’assenza di un ultimo scambio con i cari del malato, quando questo fosse ancora possibile. 

Anche il principio definito del “consenso informato” nella legge 219 (Art. 1. 1-11) è diffusamente presente nella Nuova Carta, e trattato specificamente nei numeri 156-158, dove, per il genere letterario diverso da quello di una legge, si esplicita quello che nella 219 viene chiamata sinteticamente “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico” (Art. 1.2), definendola più profondamente come una relazione solidale, relazione di condivisione e di comunione, dove il malato “non è solo con il suo male: si sente compreso nella verità, riconciliato con sé e con gli altri. Egli è se stesso come persona. La sua vita, malgrado tutto, ha un senso, e si dispiega in un orizzonte di significato inverante e trascendente il morire”.9 

Nel dibattito parlamentare, una questione che ha polarizzato le posizioni e le conseguenti dichiarazioni di voto è stata quella dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, che nella legge 219 sono definite come “trattamenti sanitari … in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici” (Art. 1.5). Così definiti, pare che sia l’artificialità del tipo di somministrazione, che richiede una prescrizione medica, a costituire l’essenza ontologica dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, facendo perdere loro l’essenza di necessità biologiche che, se interrotte, portano necessariamente alla morte. In effetti, classificandoli come “trattamenti sanitari”, la legge dà facoltà al paziente (o a chi ne ha la responsabilità secondo la legge) di chiederne l’interruzione, come con qualsiasi altro trattamento farmacologico o di altra natura (Art. 1.5), e questo potrebbe costituire un atto eutanasico, al quale, peraltro, il medico non può opporsi, come determina l’Art. 1. 6. Ciò crea un insuperabile problema di libertà per il medico che non voglia compiere atti eutanasici, di fatto mettendolo contro la legge, nel caso si rifiutasse di sospendere l’alimentazione e/o l’idratazione artificiali, se espressamente richieste dal malato o dai suoi legittimi rappresentanti. 

La posizione della Chiesa espressa nella Nuova Carta riguardo all’alimentazione e all’idratazione artificiali è decisamente più articolata, poiché lascia un margine di manovra nel discernimento tra l’accanimento terapeutico10 e l’atto eutanasico, margine che il legislatore sembra avere trascurato. Il numero 152 recita infatti: “La nutrizione e l’idratazione, anche artificialmente somministrate, rientrano tra le cure di base dovute al morente, quando non risultino troppo gravose o di alcun beneficio. La loro sospensione non giustificata può avere il significato di un vero e proprio atto eutanasico: “la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inazione e alla disidratazione”.11

Il criterio dirimente nel distinguere tra accanimento terapeutico e atto eutanasico proposto dalla Chiesa è quello della finalità propria dell’alimentazione e dell’idratazione, criterio questo, che lascia la libertà nel discernimento dei soggetti della relazione di cura per determinare quando queste cure dovute “risultino troppo gravose e di alcun beneficio”. La facoltà del medico di non compiere atti per lui contrari alla morale sarebbe stata preservata se la formulazione dei comma 5 e 6 dell’Art. 1 fosse stata rispettosa della libertà di tutti. Come osservato da un Senatore durante la sua dichiarazione di voto, seguire la propria coscienza non sospendendo l’alimentazione e l’idratazione artificiali, se richiesto dal malato o da un suo responsabile, nelle varie forme previste dalla norma, farebbe perdere al medico anche la copertura assicurativa, mettendolo in una situazione di estrema difficoltà, e questa è un’ulteriore forma di limitazione della libertà. Nei casi in cui un medico si troverà nel dilemma di dover rispettare la legge 219 o seguire la propria coscienza, e pagarne le conseguenze, la Nuova Carta offre le linee guida da seguire, valide, a mio avviso, anche per i non credenti.

L’articolo 151 legge: “Nessun operatore sanitario, dunque, può farsi tutore esecutivo di un diritto inesistente, anche quando l’eutanasia fosse richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato. Inoltre, “uno Stato che legittimasse tale richiesta e ne autorizzasse la realizzazione, si troverebbe a legalizzare un caso di suicidio-omicidio, contro i principi fondamentali dell’indisponibilità della vita e della tutela di ogni vita innocente”, ponendosi dunque “radicalmente non solo contro il bene del singolo, quanto contro il bene comune e, pertanto [tali legalizzazioni] (n.d.r.) sono del tutto prive di autentica validità giuridica”. Simili legalizzazioni cessano di essere una vera legge civile, moralmente obbligante per la coscienza, sollevando piuttosto “un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante l’obiezione di coscienza”. Al riguardo, i principi generali circa la cooperazione di azioni cattive sono così riaffermati: “I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell’intenzione morale dell’agente principale. riccardo lufrani2   fr. Riccardo Lufrani, O.P. Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cfr. Rm 2, 6; 14, 12).”

Legate alla questione dell’obiezione di coscienza sono anche quelle che la legge 219 chiama Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), a cui la Nuova Carta si riferisce nel n°. 150, affermando: “la rinuncia a … trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle dichiarazioni o direttive anticipate di trattamento, escluso ogni atto di natura eutanasica. Il paziente può esprimere in anticipo la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o no essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso della sua malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso. “Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza è la capacità, o altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”. Il medico non è comunque un mero esecutore, conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi dalla propria coscienza”. Nella legge 219, inoltre, ci sono diverse indeterminatezze riguardo a chi debba prendere le decisioni nel caso di incoscienza o incapacità o di minore età del malato, perplessità sulla realizzazione di un registro nazionale delle DAT, e anche la validità pratica dei DAT nel contesto dell’attuale sviluppo tecno-scientifico, che modifica sempre più rapidamente e radicalmente le conoscenze e le condizioni, potendo presentare al momento cruciale uno scenario terapeutico molto diverso da quello in cui il DAT sia stato redatto e registrato.

Forse alcune di queste lacune della legge avrebbero potuto essere evitate, se al Senato non fossero stati imposti modalità e tempi che hanno di fatto impedito un normale iter parlamentare, come molti senatori hanno avuto modo di sottolineare nei loro interventi in aula. Un altro aspetto che la legge 219 non riesce a regolare in modo soddisfacente è la relazione tra malato e famigliari, nel caso in cui, ormai redatto il DAT, e persa la conoscenza, il medico sia obbligato a compiere le volontà espresse nel DAT stesso, secondo le norme di legge, congelando di fatto l’interazione relazionale viva dei famigliari (e amici) con il malato, che continua a essere vivo, anche se non cosciente. Una testimonianza di questa fredda “meccanizzazione” del passaggio cruciale della morte che può ferire profondamente le persone che vivono il dramma della morte di un loro caro l’ha data indirettamente Michele Gesualdi, affetto dalla terribile Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), nel suo appello ai presidenti delle Camere e ai Capogruppo al Senato, letto in aula da una senatrice favorevole alla legge 219.

Gesualdi, che alla fine del suo discorso chiede l’approvazione della legge che regola il fine vita, racconta però un fatto che illustra bene il problema che la legge non solo non regola, ma che impedisce: “Se accettassi i due interventi invasivi [per la respirazione e l’alimentazione artificiali], mi ritroverei uno scheletro di gesso con due tubi, uno infilato in gola con attaccato un compressore d’aria per muovere i polmoni e uno nello stomaco, attraverso il quale iniettare pappine alimentari. Per quanto mi riguarda, in modo molto lucido ho deciso di rifiutare ogni inutile intervento invasivo e ho scritto la mia decisione, chiedendo a mia moglie di mostrarla ai medici affinché rispettino la mia volontà. Quando mia moglie e i miei figli mi hanno visto ridotto a uno scheletro dovuto alle difficoltà di deglutire, mi hanno implorato di accettare almeno l’intervento allo stomaco per essere alimentato artificialmente, perché sarebbe stato un dono anche un solo giorno in più che restavo con loro. Questo mi ha messo in crisi e ho ceduto, anche per sdebitarmi un po’ nei loro confronti.”12 Mi riferisco qui alla frase “Quando mia moglie e i miei figli mi hanno visto ridotto a uno scheletro dovuto alle difficoltà di deglutire, mi hanno implorato di accettare almeno l’intervento allo stomaco per essere alimentato artificialmente, perché sarebbe stato un dono anche un solo giorno in più che restavo con loro.” Come possiamo sapere quali siano i tempi e le modalità di ognuno di noi di fronte alla morte, alla nostra e a quella dei nostri cari? La legge 219 sembra privilegiare la libertà dell’individuo, ma in realtà privilegia l’individualismo, l’assoluto della libertà di un soggetto, senza tenere conto della imprevedibilità delle relazioni e quindi della libertà individuale di altri soggetti: non solo, quindi, la libertà del medico che non voglia sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiali, perché sarebbe un atto eutanasico, è fortemente mutilata, ma lo è anche quella dei famigliari che, per buoni motivi, volessero poter restare ancora al capezzale del loro congiunto, anche se incosciente. Quella che appare nella legge 219 è l’evidente contraddizione presente nelle società liberali individualiste, che nel tentativo di garantire al massimo la libertà dell’individuo, si scontrano necessariamente con la realtà dell’esistenza di altre libertà individuali, che debbono allora essere trascurate. Implicitamente, la scelta del legislatore porta ineluttabilmente su quali libertà individuali privilegiare e quali invece ignorare. E questo non solo nel caso della legge che stiamo considerando in questo consesso, ma per ogni legge che non tenga pienamente conto della realtà relazionale, la realtà di comunione, che è la società umana. È pura utopia pretendere di rispettare i diritti individuali come fossero degli assoluti in un vuoto cosmico, quando la scienza stessa ci dice che il battito di ali di una farfalla in Papuasia innesca un ciclone nei Caraibi. 

Il ritorno del realismo filosofico

In realtà, il vero problema di fondo che emerge dalla nostra discussione è un problema puramente filosofico, e per chi è credente, teologico. Giorgio La Pira, in un breve e chiaro saggio, Premesse della Politica (1945),13 mostra come, partendo da tre sistemi metafisici diversi, tre Weltanschauung, si arrivi necessariamente a tre sistemi statali diversi: alla dittatura razzista con Hegel, alla dittatura comunista con Marx e alla democrazia liberal-capitalista con Rousseau che, prevede bene La Pira, finirà con concentrare in poche mani il potere economico e quello politico, con la conseguente perdita di libertà e di eguaglianza che Rousseau voleva invece assicurare con il contratto sociale.14 La Pira ripete lo stesso percorso logico per ognuna delle tre visioni del mondo, mostrando chiaramente come, a partire da premesse diverse, si arrivi necessariamente a tre modelli di società diversi, che sono quelli che ho appena citato. Con uno slogan si potrebbe dire: dimmi che metafisica hai e ti dirò che stato costruirai. Come tutti possiamo costatare, la nostra società e il nostro Stato tendono sempre più al modello liberale individualista, e siamo oramai arrivati alla costatazione che la previsione filosofica di La Pira era corretta. La filosofia che sta alla base delle visioni del mondo è molto più determinante di quanto in genere si pensi!

La nostra società liberal-democratica-capitalista sta arrivando alla sua maturità, portando alle estreme conseguenze le premesse (indimostrabili) della filosofia che ne costituisce la Weltanschauung di fondo, certo non quella monolitica di un singolo filosofo, ma quella abbastanza coerente di una linea continua che lega Cartesio, Rousseau, Kant e Hegel,15 una lunga parabola dell’idealismo filosofico, che porta oggi i suoi frutti maturi, quali la concentrazione del potere, la perdita delle libertà individuali, il relativismo che annulla ogni tentativo di composizione di posizioni diverse nella ricerca del bene comune, concetto quest’ultimo che perde sempre più il suo valore centrale nella nostra società individualista (e, viste le premesse, come non potrebbe?), al controllo sempre più orwelliano dei patron dei Big Data in Occidente, e dello Stato Totalitario Comunista Cinese, campione di quello che gli studiosi di filosofia politica chiamano il Capitalismo Autoritario, con il già funzionante Social Credit System. Siamo ineluttabilmente votati a finire spossessati di ogni libertà e dignità a causa della visione del mondo che domina nella nostra società? Magari sostituiti da sempre più efficienti robot ed algoritmi, o divisi in una ristretta élite di “Gods” transumanisticamente modificati ed una massa di “Useless” fermi alla natura umana “naturale”, come prevede tra gli altri lo storico Harari?

Il fallimento dell’idealismo nell’interpretare la realtà (che poi è una tautologia, vista la posizione dell’idealismo stesso riguardo alla realtà!) ha portato al ritorno del realismo filosofico, un cosiddetto nuovo realismo, che si vorrebbe svezzato, per così dire, grazie alla lunga parentesi idealista, e che sta muovendo i suoi primi ed esitanti passi, tra tentazioni retrotopiche e difficoltà nell’interpretare la dinamicità della realtà storica (cosa in cui l’idealismo di Hegel invece è stato campione, anche se con un’interpretazione sbagliata). In realtà, una metafisica realistico-dinamica che renda conto della realtà storica, a mio modesto parere, è già stata sviluppata dal filosofo che ho citato prima, Tommaso Demaria, morto nel 1996, filosofia che purtroppo è stata ignorata perché all’epoca era follia per i filosofi fenomenologi, allora di moda, e scandalo per i filosofi tomisti, inchiodati al medioevo. 

Vorrei concludere con una nota di speranza, costatando come le tecnoscienze ci stiano portando sempre di più verso il realismo, ad esempio quando si vuole costruire un robot che possa interagire con la realtà, siamo costretti a definire le essenze delle cose; pensiamo ai robot empatici, che debbono “sapere” oggettivamente cosa sono le emozioni per poter funzionare; ma pensiamo anche alla realtà cruciale della vita, ed in particolare alla sua fine terrena alla quale per adesso siamo tutti destinati: l’assoluto di questo passaggio ci obbliga a cercare insieme cosa sia realmente, per poterlo rendere il più dignitoso possibile. 

Vi ringrazio della vostra cortese attenzione!

fr. Riccardo Lufrani, O.P.
Convento S. Maria sopra Minerva, Roma

 

 

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1 Enciclopedia di Bioetica e Scienza Giuridica, vol. XII, 2017, p. 819.

2 Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova Carta degli Operatori Sanitari, 2016, III ristampa, 2017, p. 9.

3 S. Agostino, De Trinit. XIV, 8, PL 42, 1044.

4 Demaria, T., Scritti teologici inediti (LAS – Roma: Roma, 2017), 43.

5 Cf. CCC § 27-30.

6 Cf. Nuova Carta, p. 5.

7 Il CCC § 2279 arriva ad affermare che: “Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate”

8 Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, III: AAS 72 (1980), 548.

9 Nuova Carta, n°. 158.

10 La Nuova Carta tratta dell’accanimento terapeutico ai n°. 149-150. In particolare, nel n°. 150 afferma: “Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi”. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, IV: AAS 72 (1980), 551.

11 Congregazione per la Dottrina della Fede, Responsa ad quaestiones ab Episcopali Conferentia Foederatorum Americae Statuum propositas circa cibum et potum artificialiter praebenda (1 agosto 2007): AAS 99 (2007), 820.

12 AA.VV.. Testamento biologico e consenso informato: Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Italian Edition) . Giappichelli Editore. Edizione del Kindle.

13 La Pira, G., Premesse della politica e architettura di uno stato democratico (Libreria editrice fiorentina: Firenze, 2004).

14 “Il difetto di base di R. qui riappare: la dissociazione della libertà dalla legge: come l’economia così la politica dello Stato di R. è affetto da questa infermità radicale. E questa dissociazione produce, in concreto, compressione dei deboli. In uno Stato che abbia come suprema finalità la tutela della libertà individuale sic et simpliciter avverrà ineluttabilmente quello che è avvenuto nella società borghese: I più forti operandi più deboli: E, quindi, le classi economicamente forti diverranno le classi politicamente dirigenti – perché si fa presto a formare e da manovrare una maggioranza! – e queste classi dirigenti, non vincolate da nessuna norma di etica politica economica, instaureranno proprio quella tirannia politica e, quindi, proprio quella deficienza di libertà e di eguaglianza per evitare la quale Rousseau aveva escogitato il suo contratto sociale!”, p. 127-8.

15 Molto interessante l’analisi dell’influenza del pensiero filosofico di Rousseau sull’idealismo classico tedesco di Renato Pallavidini, “Jean-Jacques Rousseau e la filosofia classica tedesca: un problema critico aperto”, consultabile online : http://www.comunismoecomunita.org/?p=4911.

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