Il testo del vangelo che la liturgia ci propone, fa seguito a quello di domenica scorsa in cui l’apostolo Pietro manifesta l’identità di Gesù quale Figlio del Dio vivente in cui trova compimento quella parola e quella promessa di Dio, consegnata alla storia della salvezza perché raggiunga ogni uomo.
Con il testo di oggi Gesù vuole rivelarci l’identità del suo discepolo.
Egli infatti, inizia, con i suoi, un altro viaggio, quello che lo porterà a Gerusalemme. Proprio in questo contesto Gesù comincia a esporre apertamente, a coloro che lo seguono, la necessità della Pasqua: “Il Figlio dell’uomo deve andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”. Non ci troviamo di fronte a una spiegazione nozionistica di un fatto e nemmeno si tratta di indicazioni su cose da fare. Gesù “deve” andare a Gerusalemme perché “vuole” consegnarsi al Padre per la vita di ogni uomo, e vuole farlo in quel modo che è così lontano dalla comprensione che, il credente di ogni tempo, può riuscire ad accogliere. Il Figlio di Dio, nella comunione di Amore con il Padre e lo Spirito, si consegna alla morte di croce nella vulnerabilità e nella fragilità della carne che ha assunto.
Pietro, modello di ogni discepolo e credente, non capisce e inizia a rimproverare Gesù. Il discorso sulla necessità della Pasqua è duro e Pietro vuole far ragionare Gesù, farlo ritornare sui suoi passi. Pietro infatti, come ciascuno di noi, fatica enormemente a comprendere la rivelazione del mistero pasquale di Gesù. Il disegno di Dio, che comporta la passione e la morte del Figlio, allontana l’idea della risurrezione e, pertanto, di fronte al pensiero della croce e della sofferenza è bene pregare che Dio ci liberi e non voglia che tutto questo accada. Il travaglio di Pietro, come quello di ogni credente, è quello di farsi un Dio a propria immagine che sia capace di rispondere alle idee e alle aspettative che abbiamo su di Lui e che di conseguenza agisca secondo i nostri progetti. È la tentazione sempre presente e viva, in ciascuno di noi, di ridurre Dio a un idolo, a ciò che riusciamo a vedere e capire di Lui. In questo modo lo costruiamo e lo progettiamo come desideriamo e gli affidiamo il nostro bisogno di salvezza e di vita. Ecco perché, come Pietro, rischiamo di “pensare secondo gli uomini e non secondo Dio” e manifestiamo quella tentazione diabolica di rendere il più possibile Dio simile a noi e di conferirgli desideri, atteggiamenti e azioni il più possibile adeguate ai nostri criteri.
Il richiamo conseguente di Gesù a Pietro è una lezione carica di vita. Egli infatti “ri-chiama” Pietro alla sequela e lo invita a non mettersi davanti al maestro, ma a stare dietro Lui. Il posto del discepolo non è quello di chi conduce, ma quello di cammina sulla strada tracciata dal suo maestro. Il discepolo non impone il cammino, piuttosto lo asseconda scoprendo sentieri e strade su cui portare la parola del suo Signore.
Proprio per questo, nella seconda parte del testo, in un discorso ora rivolto a tutti coloro che sono suoi discepoli, esplicita quelle che sono le condizioni della sequela. Fondamentale è la premessa: “Se qualcuno vuole venire dietro a me”. Essere discepoli è, difatti, una questione di scelta. Non si tratta di essere pronti o a posto, né di soddisfare alcune condizioni che garantiscano il risultato: la sequela di Gesù non è un’assicurazione contro gli infortuni o le insoddisfazioni della vita. Si tratta piuttosto di voler esserci e di voler fare. La sequela richiede relazione e responsabilità; chiede la capacità di dare una risposta a una rapporto con una persona che non ti svela magicamente il percorso, ma cammina con te nella vita. Non è neanche necessario essere perfetti, piuttosto è necessario coltivarsi in una dimensione di ascolto che, se accolta, orienta verso un fine di pienezza e felicità la propria relazione con Dio.
Pertanto, una prima condizione della sequela chiede di “rinnegare se stessi”. Non si tratta qui di svalutare se stessi, di annientare la propria persona o di vivere una falsa umiltà considerandosi non degni di stima e fiducia. Si tratta piuttosto di imparare a non contare troppo su stessi e allargare gli orizzonti della nostra vita. Come Paolo suggerisce nella lettera ai Romani si tratta più concretamente di “non conformarsi a questo mondo, ma di lasciarsi trasformare rinnovando il modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. La sequela è un cammino che conforma la vita del discepolo a quella del suo Signore. Per far questo è necessaria una continua conversione e cambiamento di mentalità, del modo di porsi di fronte alla relazione con Dio e di fronte agli eventi della vita. Essa chiede di spostare il baricentro del nostro io verso Dio e di vivere la relazione con Lui non rimanendo legati a conformismi e osservanze esteriori privi di vita. Il culto spirituale a cui siamo chiamati è la capacità di conformarsi al suo amore e alla sua capacità di offrire la vita che libera e rende capaci di relazione con l’Altro e con gli altri.
La seconda condizione della sequela chiede di prendere la propria croce. Anche qui non si tratta solamente di accogliere la propria storia accentando la sofferenza e le croci che si presentano e, affidandosi a Lui, offrile al Signore. Si tratta piuttosto di accogliere la vita come evento e, così come essa accade ed avviene, scegliere di appartenere a quel Dio fatto carne, e condividere in una relazione solidale di amore e di comunione, il cammino concreto e quotidiano di ciascuno. Momento dopo momento, giorno dopo giorno, la vita di chi vuol essere discepolo, diviene sempre più quella del Maestro: capace di dare la vita, consegnandola per amore. Il cuore del Vangelo e il cuore del discepolato è proprio questo: come Gesù, saper perdere perché si dona è la certezza di avere vita in abbondanza.
sr. Amelia Grilli – Suore Domenicane di Santa Caterina da Siena